Con Vivaldelli, per ripartire da Nazaret
Al Palarotari la proposta natalizia diocesana.
A Sfruz saranno contenti. Soprattutto se ai suoi abitanti dovesse capitare, come accadde a quelli di Nazaret, di passare dall’anonimato alla fama perpetua. Il paragone-provocazione tra la bassa Galilea e la bassa val di Non, evocato da Gregorio Vivaldelli al Palarotari di Mezzocorona nella proposta diocesana prenatalizia del 3 dicembre, strappa molto più di un sorriso. Sfruz, come Nazaret, significa normalità, quotidianità, anche grigiore, come spesso capita alle agende di ognuno. E a Nazaret il Dio cristiano preferisce trovare casa, nella ferialità senza effetti speciali, in un silenzio lungo trent’anni, fatto di scene come quelle dipinte con magistrale semplicità dall’artista contemporanea Rose Datoc Dall. “Se rinascesse in noi – invocava Paolo VI proprio a Nazaret, rammenta Vivaldelli – la stima del silenzio nella tumultuosa vita del nostro tempo!”. Da qui è necessario ripartire (come recita il titolo dello spettacolo) per dare un senso ai nostri giorni.
A Nazaret, in verità, il pubblico è condotto solo al termine del viaggio serale, in equilibrio tra Vangelo (Luca e Matteo, in particolare) e opere d’arte a soggetto, scovate dal biblista rivano con curiosità certosina in un vasto archivio temporale. All’avvio non può infatti che esservi la nascita di Gesù, il Dio che incarna la novità assoluta “rappresentata – rammenta Vivaldelli – da ogni bambino”. Verso di lui muovono i pastori, svegliati dall’intensità della luce.
L’adorazione immortalata da Juan Bautista Mayno a inizio 1600 colpisce per il realismo della scena: c’è chi, più anziano, trasuda emozione, mentre i più giovani non paiono coinvolti. Dall’alto vegliano due angeli custodi, con robuste e protettive ali d’aquila. “Gesù bimbo – commenta Vivaldelli scorrendo il quadro – unisce cielo e terra. I pastori sono disponibili a lasciarsi sorprendere, ma anche a tornare alla loro quotidianità: l’adesione di fede non è mai fuga dal quotidiano”
Se i pastori sono modello di disponibilità ad incontrare Dio, figuriamoci i Magi che rappresentano “tutti i lontani e ogni tipo di lontananza”. Per loro “sorge in cielo una stella speciale” e per questa sono “disposti a mettersi in movimento”.
Vivaldelli si rivolge al pubblico e lo esorta a una personale autoanalisi: “Dov’è che io, da troppo tempo, sono fermo?”, interroga con semplicità e senza moralismi, mentre il sorso d’acqua necessario a reggere due ore di monologo si mescola agli applausi meditativi dell’attento uditorio.
I tratti nobili del Mantegna mostrano i Magi in adorazione. “Il loro prostrarsi è come dire: prova a metterti all’altezza di questo Dio bambino”. Arrivati con i loro doni (“l’oro rappresenta ciò che si ha, l’Incenso ciò che si desidera, la mirra ciò che si è, nella propria fragilità umana”), si trovano di fronte un “dono molto più grande: Gesù”. Nel ritorno, cambiano percorso: “tornano cioè – commenta il biblista – alla loro quotidianità, ma con un cuore, una sensibilità e una disponibilità nuovi”.
La Presentazione al tempio, con i grandi vecchi Simeone e Anna e il loro sguardo beato, come ce li propone Jan Vant Hoff in un fresco dipinto del 2020, anno pandemico, racconta del “vecchio che accoglie il nuovo e il nuovo che ha bisogno di essere sostenuto”, senza cedere alla tentazione radicata di stroncare i giovani, come attesta l’excursus storico di dotte citazioni riportate da Vivaldelli. “Continuare a lamentarsi – chiosa il docente – spegne la luce della speranza. Grazie agli anziani che diffondono speranza! Più che preoccuparsi di aggiungere giorni alla vita, aggiungono vita ai giorni”. Anche questo significa ripartire da Nazaret. Come da ogni altro paese al mondo.
Articolo di Piergiorgio Franceschini - Foto di Marco Berteotti
Leggi l'articolo